Toni Servillo: l’uomo-simbolo di un Cinema che può ancora essere

18.09.2013 00:54
DI GIANMARIA TAMMARO
 
 
'LA CRISI DEL CINEMA ITALIANO - Sorvoliamo sulla Mostra del Cinema di Venezia (complimenti a Rosi per il suo Sacro GRA!). Sorvoliamo sul cinema italiano, la crisi che sta attraversando e l’ostinazione di certi produttori (RAI Cinema in primis) di dire che, nonostante tutto, si sta bene. Sorvoliamo sul fatto che una soluzione univoca non c’è e che sicuramente non saremo noi a dare una risposta alla domanda “che ne sarà della Settima Arte made in Italia?”. Sorvoliamo su tutte queste cose e andiamo al punto: Toni Servillo. Che, ovviamente, non è un punto ma una persona, un attore. Meglio ancora: L’attore.
Afragolese di nascita, Servillo si è rapidamente imposto sulla scena nazionale e internazionale come uno dei migliori caratteristi di quest’epoca. Prima però che Mario Martone lo scoprisse e lo portasse sul grande schermo nel 1992 con Morte di un matematico napoletano, Servillo lavorava (e lavora tuttora) a teatro, sul palcoscenico, tendaggi rossi alle spalle, pubblico seduto davanti. Che cos’è, allora, che lo differenzia da tanti altri interpreti nostrani? E soprattutto: perché abbiamo scelto lui come il simbolo, la sintesi perfetta di una panacea contro il male della crisi?
TONI SERVILLO: L’ESEMPIO DA SEGUIRE -Toni Servillo è approdato al cinema in ritardo: né vecchissimo, ma neppure giovanissimo. Si è fatto la sua gavetta, di teatro, scritture e performance eccezionali. Ha avuto successo, è piaciuto al pubblico e alla critica, e alla fine, ciliegina sulla torta, è stato notato: Martone prima, Sorrentino poi, che ne ha fatto il suo uomo di punta, la sua marionetta, il suo – per dirlo alla spicciola – «attore-fantoccio». E anche sul grande schermo ha vinto, stra-vinto e conquistato: L’Uomo in Più (2001) l’ha consacrato nell’Olimpo dei divi, e ne ha fatto uno dei nostri migliori – lo diciamo di nuovo – caratteristi.
La forza di Servillo sta, probabilmente, nella sua vena napoletana, nel suo approccio alle cose; nel suo metodo, nella sua impostazione, nella sua – attenzione – sicurezza.Qualunque sia il personaggio che deve interpretare, sembra spogliarsi di qualsiasi cosa, vita, guai e gioie, e indossare un abito completamente nuovo, non suo, che però gli calza a pennello. Ne La Grande Bellezza (2013) non abbiamo davanti Toni Servillo che recita, ma Jep Gambardella che vive; ne Il Divo c’è Andreotti che parla, racconta, snocciola, non Servillo attore. L’uomo scompare e al suo posto prende forma il personaggio, presenza fluttuante che finalmente prende vita, con un corpo ed una voce.
 
PER RIPARTIRE BISOGNA TORNARE INDIETRO – A parte le solite eccezioni, in Italia non funziona così: non si fa alla Servillo (come in Inghilterra, talvolta, si fa “alla Dench”). In Italia il teatro è un passo necessario per arrivare in alto, al cinema, ma che spesso invece d’aiutare rovina: si perde in naturalezza, abilità e – cosa sacrosanta per un attore – spontaneità. Il copione viene seguito alla lettera, meccanicamente, togliendo tutto lo spazio all’immedesimazione e alla fase creativa dell’attore: è un teatro che scimmiotta solamente quello di una volta, un teatro talvolta troppo classicheggiante e poco innovativo. Ci ritroviamo così davanti ad interpreti giovani, rigidi, fuori posto: una generazione che non ha niente (o quasi niente) in comune con quella di Servillo.
È per questo, forse, che i titoli che vanno per la maggiore sono commedie: la profondità dei personaggi in questo tipo di film non c’è, non esiste; è gracile e traballante come le gambe di un tavolino d’epoca. Manchiamo di mattatori e caratteristi; manchiamo di un metodo. Parole che pesano, ma parole vere: il cinema italiano è diventato un surrogato di quello che era una volta; i suoi interpreti preferiscono le fiction alle opere impegnate; il talento sembra un ricordo lontano, un requisito depennato dai curricula perché «troppo eccessivo, troppo raro».
Toni Servillo in appena 13 anni di carriera attiva nel cinema ha fatto più di quanto un’intera generazione ha fatto negli ultimi venti/trenta anni. E non è solo l’uomo, che va apprezzato per questo: è la scuola dalla quale arriva, il suo modus operandi, la sua forza, la sua continua caratterizzazione dei personaggi, lo studio e la ricerca che conduce. Una ricetta che molti, se non addirittura moltissimi, sembrano aver dimenticato in Italia.Un ritorno alle origini, mai come stavolta, è più che necessario: è un atto dovuto.'